Civiltà e cicli culturali si susseguono come le ere geologiche e come alle
ere geologiche possiamo dare nomi diversi per distinguerle. Alla nostra ce ne
sono diversi che ben si adattano: civiltà Egocentrica, per l’enfasi posta
sull’Io, oppure civiltà del Libro, contrapposta a quella della Visione che l’ha
preceduta. Su questa, parlo dei Minoici, sarà interessante soffermarsi per vedere
se qualche parte del loro DNA ci è stato trasmesso e come.
Creta è posta al centro dell’Egeo e in essa hanno confluito culture
provenienti dall’Egitto, Siria-Palestina e penisola Balcanica. La bellezza dell’isola
è commovente, la si ama come un’amante. Un viaggio di pochi chilometri dalla costa
verso l’interno montuoso ne rivela la completezza di piccolo mondo, dandole tempo di stimolare in noi quella capacità
visionaria che può svelarcela come vivente.
Non ci sorprenderà, quindi, scoprire
che la visione fosse il centro attorno al quale si dispiegava l’universo
minoico, i picchi delle montagne e le viscere della terra i luoghi previlegiati
di queste epifanie. Nella visione, caduta la barriera tra fisico e metafisico,
visibile ed invisibile, il mondo si rivelava come partecipe della natura di
entrambi. Quando con la visione cominciò a scemare la pienezza di senso che ne
deriva, i Minoici non si rassegnarono e ricorsero al papavero da oppio, coltivato
estesamente nell’isola. Alcuni anelli d’oro mostrano personaggi estatici
all’apparire di figure provenienti dal cielo o danzanti tra loro in mezzo ai
fiori. Chi fossero e quale rapporto avessero coi Minoici lo ignoriamo ma di due
possibili attori ci è stato tramandato il nome. Una veniva chiamata Signora del
Labirinto, l’altro era conosciuto sotto diversi nomi tra i quali Dioniso.
È possibile che la prima fosse Creta stessa, e la Terra
per estensione, nel suo aspetto di madre, amante e guida in un percorso
iniziatico. Col tempo assumerà altri nomi e con Dioniso avrà un ruolo
importante nella storia dell’Occidente. Della loro somiglianza con Iside ed
Osiride molto si era parlato nell’antichità, ma l’incontro con gli isolani
delle Cicladi, avventurosi e indipendenti, modifica la loro natura. L’estatico
suonatore d’arpa cicladico rivela, infatti, che da quelle parti gli uomini si sentivano già
Dei, o gli Dei uomini, e le peripezie di Iside e del suo compagno rappresenteranno
il viaggio dell’Uomo nel mondo alla scoperta di sè.
Questo fà dellla civiltà Minoica un insieme pulsante e dinamico, pervaso di
erotismo e di una grazia ineguagliata, parte di un cosmo vivente ed in costante
evoluzione, nel cui mistero l’uomo può addentrarsi sulle orme della coppia
esemplare. Ad esso ben si adatta la formula che accomuna Eraclito allo Zen “Uno
in tutto e tutto in uno”.
Se l’età del genere umano rispecchia quella dell’individuo Creta è stata la
nostra infanzia, per questo Krates ed Aristophanes la ricordano come un luogo
incantato, avvolto nella nebbia dorata del mito, dove uomini ed animali dialogavano
in amicizia e con ironia.
Ce la siamo goduta, ma niente è per sempre e quando la fine arriva è
cataclismica e non lascia dubbi che si tratti della fine di un mondo. La Terra
si era fatta sentire anche prima con terremoti frequenti ma questa volta, forse
per la magnitudine degli eventi calamitosi, neppure le visioni salvano dall’orrore
per la madre ed amante che rivela il suo aspetto nefasto. Traditi da essa ed
aggrediti da popoli bellicosi provenienti dalla terraferma i Minoici non hanno
la forza di reagire e su loro cala il sipario, l’amato kindergarten chiude i battenti.
Passeranno secoli prima che dal caos che segue emerga un nuovo cosmo;
frutto dell’incontro tra i barbari e la civiltà che li ha preceduti i suoi
connotati saranno quelli a noi più familiari del mondo greco.
Non tutto della sofisticata realtà Minoica andrà perduto ma l’abbandono
alla vita e il senso di appartenenza intima al mondo, saranno sostituiti da una
sorta di schizofrenia tattica che estranea ma assicura maggiore autonomia. La
fine della comunione col mondo riduce però il flusso dell’Eros e la noia subentra
alla pienezza di senso. La scissione si ripete allora nella persona che
proiettandosi fuori di sè si guarda vivere ed agire e da questo,
paradossalmente, ha inizio una cultura egocentrica.
L’eredità minoica si fa sentire nelle due definizioni che
i Greci hanno per vita: bios la vita
dei singoli, provvista di identità e soggetta al tempo e zoë la vita nel suo
aspetto indifferenziato e libera dal tempo. I Minoici vivevano simbioticamente l’una
come manifestazione visibile dell’altra, non così i Greci egocentrici e tormentati
da una mancanza ontologica. Nell’ansia di colmare questo vuoto cercheranno di
capire l’enigmatico altro da sè che è divenuto il mondo sondandolo con la luce
fredda dell’intelligenza analitica ma per i bisogni che questa non può
soddisfare saranno attratti dall’antica cultura, seguendone le orme in un
cammino di carattere iniziatico che troverà forma nei Misteri. Ciò che è trapelato
ne conferma la continuità con l’aspirazione presente da sempre in questa parte
del Mediterraneo: l’Uomo-Dio.
Per saperne di più analizziamo la società greca e un primo indizio ci viene
da una manifestazione pubblica, di carattere sacro, che celebrava Dioniso: il
Teatro. Nato dal ditirambo e dalle processioni falliche si svilupperà nella
Tragedia e nella Commedia attraverso le quali si poteva vivere un’esperienza
trasformatrice: il partecipante, fuori di sè, s’identificava col Dio che interpretava
l’uomo e guardando alla propria vita da una prospettiva diversa ne coglieva
la sacralità.
Anche Eraclito ci aiuta, affermando che La
medesima cosa sono Ades e Dioniso per cui impazzano e si sfrenano, ricorda
che il Signore dell’Eros che produce la vita è anche Signore della morte. Come
Eroe, infatti, è sceso agli inferi ma a differenza degli Eroi ne è tornato, padroneggiando
Eros e Thanatos ce li svela come due facce della stessa medaglia.
Durante i festivals religiosi che celebravano l’impresa si apriva un canale
tra il mondo dei vivi e quello dei morti mentre la moglie del re d’Atene, indaffarata
nei preparativi concernenti una rinascita, riceveva Dioniso col quale si intratteneva
in una conversazione estatica e al quale, dicono, si univa carnalmente. Alcuni
vasi di ambito dionisiaco alludono maliziosamente all’Eros come chiave
d’accesso all’universo del Dio anche se, essendo un segreto religioso, ne
ignoriamo gli sviluppi.
Nessuno tra gli Dei riflette l’uomo meglio di Dioniso. Il “Dio Pazzo” nasce
immaturo, patisce la morte ma rinasce; la sua complessità e profondità è tale
che il presentarlo come Dio del vino fa pensare ad un vero e proprio depistaggio. Il suo
rapporto coi Greci è problematico, dapprima rifiutato come alieno trionferà grazie
alle donne nelle quali è forte la capacità visionaria. Con Phebo, invece, il Greco
s’identifica con piacere ma dell’altro, più tenebroso, non può fare a meno e la
dialettica fra i due favorisce il dispiegarsi di un orizzonte metafisico dove l’intelligenza
greca si muove con agilità, spaziando dall’Essere come eterno flusso e divenire
di Eraclito, a Parmenide che lo concepisce sempre uguale a sè stesso ed immobile.
Tra queste coordinate navigherà il
pensiero occidentale cercando una sintesi tra posizioni che appaiono inconciliabili.
Ma la soluzione tarda a venire e la nostalgia per la dimensione perduta si fà
sentire, sarà l’arte ad occuparsene svelando nell’oggetto la fragranza
dell’Essere e reinstaurandolo nel ruolo che gli è proprio.
Inizialmente questo assetto è equilibrato, ma col tempo l’Io greco s’identificherà
sempre più con l’intelligenza speculativa, ingigantendola a scapito di altri
aspetti di sè che confluiranno nella parte sommersa dell’Uomo. La tendenza si
radicalizza nella filosofia platonica che divide la realtà fra Idea e Materia,
la prima eletta a soggetto domina l’altra degradata ad oggetto, subordinando così
la totalità dell’uomo a quell’Io che si riconosce nei processi ideativi che
sono, alla superfice, verbali. Questo penalizza l’Eros, esso infatti emana
dalla relazione fra due soggetti mentre il rapporto col mondo banalizzato ad
oggetto è un’autopsia.
È ironico che l’allegoria della caverna di Platone descriva così bene l’uomo
che, proprio identificandosi con la funzione intellettuale, s’imprigiona nella
caverna del cranio percependo solo le ombre della realtà. Realtà che sarebbe avvicinabile
unificando erotismo e pensiero, ma la dialettica platonica è sconnessa, svilita
una parte alla tesi non corrisponde un’antitesi vitale e la sintesi è malaticcia.
Lascio ad altri l’analisi della pederastia greca, specie nella forma praticata
a Sparta dov’era propedeutica all’Areté,
l’eccellenza. Interessanti anche le dimensioni del sesso maschile nelle
sculture dove è ridotto ad un gingillo decorativo, perchè mai i Greci ne ritenevano
elegante la riduzione a dimensioni insignificanti? Alle donne non è poi che
andasse meglio, con l’ovvia volontà di ignorare la carnalità ogni traccia di
sessualità è mortificata. Che civiltà uscirà da queste premesse? Certamente una
così amata da Wienckelmann da spingerlo a “migliorarla”, tanto da giustificare
la leggenda che lo vede impegnato nel levigare le sculture classiche su cui può
mettere mano, eliminando il colore e sfumando i volumi per confermare la sua
teoria che l’arte Classica è in realtà Neoclassica.
Sull’altra sponda del Mediterraneo fa parlare di sè una popolazione Semita installatasi
in Palestina previo sterminio degli aborigeni, come da autorizzazione scritta
dell’Altissimo. Portatrice di una religione monoteista aspra e fieramente
avversa agli idolatri, identificati in coloro che onorano le manifestazioni
visibili dell’Essere. Gli Ebrei infatti adorano il Verbo, meglio se scritto nel
Libro che registra, oltre alla loro storia, una serie di verità rivelate da Dio
tramite visione ad un interlocutore previlegiato. Tra queste significativa
quella che chiarisce l’origine della realtà, semplicemente chiamata ad essere
dal nulla, perchè sottolinea l’importanza dei processi verbali per questo
popolo singolare.
La testimonianza del passaggio da Visione a Libro non è l’unico aspetto interessante
di questa cultura, in seno ad essa nascerà, infatti, una nuova religione il
Cristianesimo. Molto nel Cristianesimo è di derivazione ebraica ma vi riaffiorano
elementi Dionisiaci riguardanti la morte-rinascita, resa possibile dal figlio
di Dio che per amore dell’uomo si incarna espiandone sulla croce il peccato originale,
in dubbio quelli successivi. La nuova religione non solo parla d’amore ma lo pone
al disopra dell’ortodossia ebraica e il fondatore, in accordo col destino
scelto, pagherà con la vita quest’audacia.
In Italia sono attivi da tempo gli Etruschi e se fin troppo si è scritto
sull’influenza di Ellenismo ed Ebraismo nella formazione dello spirito europeo,
non si è riflettuto abbastanza sul nostro debito verso quel popolo misterioso. Circondati
da una atmosfera sulfurea gli Etruschi sono di casa nell’arcano, maturi e
virili sanno che forze immani e spesso ostili sovrastano l’uomo ma, pur
intimoriti, non cedono e non si affidano agli Dei, forse perchè non li
ritengono sufficentemente reali. Risuona tra loro la nota di fondo dei
metafisici: la consapevolezza, nelle cose, della tensione fra l’essere e il nulla.
Mi piace pensarli là in alto nelle città ventose osservare la pianura
sottostante, i campi coltivati e la selva primordiale che ancora copre tanta
parte d’Italia, mentre riflettono sul modo migliore per sfidare gli Dei. Non allo
sprint no, in quello sono imbattibili, i Greci che di talento ne avevano c’hanno
provato... bruciati, e non si sono mai più ripresi! Piuttosto una sfida di
lunga durata visto che hanno un’arma segreta, metabolizzano il dolore e lo
trasformano in propellente. Torneremo a parlarne, per ora limitiamoci a
registrarne l’influsso sulle tribù locali che porterà Roma ad accogliere
l’eredità di Atene.
Beh, Atene non è più quella di una volta e gli artisti se ne vanno, portando
in ogni angolo dell’impero romano se non la freschezza creativa, almeno
un’eccellenza esecutiva impareggiabile e i signori del mondo se ne circondano
per goderne nei momenti di ozio. Anche il Cristianesimo punta su Roma, dove il suo
carattere pastorale verrà arricchito dall’idealismo platonico compatibile col
substrato ebraico, entrambi infatti subordinano la realtà sensibile a quella
ideale. L’arte non ne trae gran beneficio ma, insomma, salviamo il mestiere che
il resto verrà.
E verrà, infatti, da Bisanzio dove lo spendore orientale straripa
nell’opulenza di mosaici deliranti che si emancipano dall’ambito pedonale lanciandosi
alla conquista di spazi aerei, un mondo di materia rivelata nel suo aspetto
erotico, puro Eros solidificato e fattosi colore. E se di Bisanzio niente o
quasi è rimasto, una visita a Ravenna convincerà gli increduli, basta alzare
gli occhi al cielo per essere inondati dallo splendore della Terra, alla faccia
di Plato e del bello ideale! Il mondo antico celebra la propria fine nella
formidabile conflagrazione musiva bizantina, proiettando il plasma incandescente
che accrescerà la nuova stella, il Cristianesimo, dotandola di una vitalità e qualità
terrigna ignota agli estenuati virtuosismi ellenistici.
Certo non tutto fila liscio perchè se l’animo greco, curioso e avido di
conoscenza, aveva sfornato le ipotesi più disparate su ogni genere di problema,
adesso le cose cambiano. Con Dioniso relegato agli inferi, dove non si trova
male, e i Misteri degradati a curiosità etnico-sessuale il terreno è sgombro e
la Chiesa si pone tra la naturale curiosità dell’uomo e il mondo imponendo il
suo sistema interpretativo: una serie di “verità” difese da dogmi. Se Plato avesse
usato la colpa come pietra angolare del suo edificio metafisico, gli Ateniesi
l’avrebbero fatto rinchiudere ma il Cristianesimo compie il miracolo e l’Uomo, approssimazione
miserabile di perfezioni iperuraniche, si china ed accetta il carico. La colpa
comporta sanzioni e se quella originale, oscurata da un’inspiegabile amnesia ed
espiata dal Salvatore, è in dubbio quelle che seguono scatenano i fulmini della
Chiesa e con assoluzioni ed indulgenze serviranno a controllare quell’animale riottoso
che è l’Uomo.
L’impero romano finalmente crolla, per la gioia di coloro che detestano i
signori del mondo, ma non crolla il Cristianesimo che guadagna posizioni concedendo
agli ambiziosi, sufficentemente abili da emergere, l’approvazione divina ed
ottendo in cambio le anime. Dissentire sarà pericoloso come scopriranno
Giordano Bruno ed altri, chi si cura delle anime infatti difende coi denti un’ortodossia
che assicura ampi privilegi tra i quali supremo, secondo alcuni, il piacere di violare
la volontà altrui.
Nel periodo che segue l’arte perde entusiasmo forse perchè la Chiesa è un cliente
difficile, soggetta com’è a periodiche crisi d’identità. La disputa tra Iconoclasti
e Iconofili, pur nella sua ferocia, è solo l’aspetto superficiale del vero
scontro, quello tra Realtà ed Astrazione. Per secoli la lotta divamperà
furibonda tra chi sostiene che la mortificazione della realtà sensibile
corrisponda alla virtù e coloro che vivono detta realtà come manifestazione
poetica dell’Essere, al quale sentono di appartenere per diritto di nascita. L’astrazione
andrebbe usata come il sale in cucina, un pizzico esalta i sapori, troppo li
distrugge, ma disdegnando la gastronomia e non trovando una sintesi il
Cristianesimo cercherà di salvare capra e cavoli, un bello stress. Alla fine gli
Iconofili la spuntano ma l’influenza degli sconfitti invecchia e restringe le
arterie poetiche e l’arte bizantina, dissecata e irrigidita in uno stile
minerale, è ormai una foglia morta che il vento spazzerà via.
Vento che soffia vigoroso quando lo spirito Etrusco riaffiora in quella
terra che li ha visti vivere e ne conserva, nelle proprie viscere, la memoria. Esso
anima l’opera di Donatello e Masaccio dove appare un Uomo nuovo, fatto anche di
carne e più complesso, è l’inizio dell’Umanesimo ragion d’essere del
Rinascimento. L’entusiasmo è grande
ma la strada sarà lunga perchè l’Uomo nuovo va costruito consapevolmente, atomo
per atomo e il tentativo del vecchio, rigenerarsi con un bagnetto ellenistico e
spacciarsi per nuovo, porterà ad un’overdose di platonismo. Ho poca simpatia
per Michelangelo, campione della restaurazione contrabbandata per rinascita, altro
è il sogno occidentale, altri gli artisti che rinfrescano il cuore avvincendosi
alla sostanza in un Tango così erotico da infondere vita anche ai temi
deprimenti prediletti dal committente. Negare il mondo esaltandone l’Eros risveglia
qualche sospetto ma la Chiesa, saggiamente, finge di non vedere.
Da Firenze il Rinascimento si estenderà al resto del continente segnando la
nascita, grazie al demone dell’arte, dello spirito europeo. Spirito europeo che
è congegnato come una di quelle aspirine per chi ha lo stomaco debole, il
rivestimento ebreo-platonico è dolce al palato cristiano mentre il principio
attivo all’interno, che corrode gli Dei per aumentare l’Uomo, è Etrusco. Il Logos prende casa a Firenze, l’Eros
preferisce Venezia, difficile farli stare assieme ma gli artisti ci provano, come
dimostra la formula attribuita a Tintoretto – disegno di Michelangelo e colore di Tiziano – ma fondamentale non è
l’eccellenza di musica e libretto, ma che collaborino per svelarci che la natura
del mondo è poetica, come accade nelle sculture policrome di Valdambrino e
Jacopo della Quercia.
Ma non facciamo i difficili che tra Firenze e Venezia impazza la festa
dell’arte, il miele cola dai favi e l’anima in piena della doviziosa Italia
straripa inondando l’Europa. Questa è vita! L’alluvione feconda i giardini
europei e i frutti non tarderanno a venire, contribuendo a spegnere i roghi dell’Inquisizione
ed accendere il secolo dei Lumi. Ciò che era stato negato a Galileo sarà
permesso a Newton e gli altri Illuministi. L’Uomo finalmente può dedicarsi alla
scoperta di sè e del mondo, affinando strumenti razionali per verificare che le
proprie ipotesi siano confermate da esperimenti e misurazioni.
Lo spettacolo può cominciare! I cinquant’anni a cavallo tra Ottocento e
Novecento sono epici, Nietzche e Strindberg martellano ai fianchi Filosofia e Cristianesimo,
Freud e Jung scoprono l’Atlantide misteriosa che giace sotto il livello della
coscienza e ne avviano l’esplorazione. Einstein crea il finimondo, dopo lui
Tempo e Spazio non saranno più gli stessi, mentre il pacchetto di mischia della
fisica quantistica azzarda idee vertiginose su vuoto, materia e numero delle
dimensioni.
Questa volta si fà sul serio ed il software ebreo-platonico sottoposto ad
un attacco senza precedenti comincia a dar di matto. L’arte riflette l’angoscia
per un mondo che si sgretola ma è attiva nell’impiantare le palafitte della
nuova Venezia. Il saggio “Universo di morte” dello scrittore Henry Miller, di
cui traduco i punti salienti, ci porta dritti al cuore del problema.
...Scegliendo Proust e Joyce ho scelto due figure
letterarie che mi sembrano le più rappresentative del nostro tempo...
Sono degli sconfitti, uomini che fuggono da una crudele,
odiosa realtà nell’arte...
Prodotti ultracivilizzati li troviamo rifiutare ogni
questione dell’anima, scettici della scienza stessa...
Questa formidabile rappresentazione del mondo come
malattia che Proust e Joyce ci hanno dato...
Joyce è in rivolta non contro le istituzioni, ma contro
l’umanità...
Quella disintegrazione dell’io che era presente nell’Ulisse
è ora portata al limite estremo e corrisponde fedelmente alla disintegrazione
del mondo esterno, abbiamo qui il più bell’esempio di schizofrenia, la
dissoluzione del macrocosmo va mano nella mano con la dissoluzione dell’anima...
Idolatrare l’arte per sé stessa, non per l’uomo. Arte in
altri termini vista come uno strumento di salvezza, come redenzione dalla
sofferenza, una compensazione per il terrore di vivere. Arte come un sostituto
alla vita...
Proust è più capace nel presentare l’aspetto metafisico
delle cose, in parte grazie ad una tradizione così radicata nella cultura
mediterranea...
Attraverso quei veri passaggi estatici nell’ultimo volume
della sua opera, passi sulla funzione e il ruolo dell’artista, Proust
finalmente raggiunge una chiarezza di visione che fa presagire la fine del suo
metodo stesso e la nascita di un tipo d’artista interamente nuovo…
Proprio come i fisici esplorando la natura materiale
dell’universo sono giunti alla soglia di un nuovo misterioso reame, così Proust...
Ma ecco il pensiero di Proust sull’arte:
...la verità era
che sicuramente l’Essere in me ha goduto queste impressioni perchè in sè queste
impressioni, avendo qualcosa in comune con un giorno da molto tempo passato con
il momento presente, in qualche modo sono extratemporali e questo Essere in me
fa la sua apparizione solo quando, attraverso queste identificazioni del
presente col passato, si trova nel solo ed unico medium in cui può esistere e
gioire l’essenza delle cose, vale a dire fuori dal tempo...
Un minuto liberato dalla legge del tempo ha ricreato in
noi l’uomo liberato dal tempo...
...ed è comprensibile che quest‘uomo creda alla sua gioia
perchè il fenomeno “morte” perde il suo significato, collocandosi fuori del
tempo perchè dovrebbe temere il futuro?
...frammenti di esistenza riscattati dal tempo! Questo il
vero e genuino piacere che si prova, anche se è fuggevole, a contemplare
l’eternità...
...ci appartiene solo ciò che strappiamo all’oscurità che
è in noi...
...si arriva quindi alla conclusione che nella
realizzazione di un lavoro d’arte non siamo liberi, non possiamo scegliere come
farlo perchè ci preesiste e di conseguenza, dato che è necessario e nascosto,
dobbiamo fare ciò che dobbiamo fare come fosse una legge di natura vale a dire
scoprirlo. Ma questa scoperta che l’arte ci obbliga a fare, nonostante rimanga
di regola celata, non è forse la scoperta della nostra stessa vita?
...le varie teorie artistiche non devono farci perdere di
vista la realtà che l’arte deve esprimere non la superfice degli oggetti, per
quella va bene la fotografia, ma quella profondità dove l’apparenza conta
poco...
...un’ora non è solo un’ora ma un vaso pieno di vari
progetti ed atmosfere e quello che chiamiamo realtà è il collegamento tra
queste sensazioni immediate e le memorie che ci avviluppano, questo
collegamento è soppresso dal cinema come dalla fotografia che proprio perchè
dichiara di attenersi alla realtà in effetti se ne separa.
La teoria proustiana dell’arte è superba e c’è dell’altro che Miller,
troppo vicino, non vede. In astrofisica due stelle di neutroni rotanti in
orbita fissa l’una attorno all’altra vengono definite un sistema binario, Proust
e Joyce formano un sistema binario proprio
come Cézanne e Duchamp. Così ho analizzato l’opera di Duchamp in ”Breve storia
dell’arte”:
Che è moderno si capisce subito perchè ha fretta, non ha
tempo da perdere e per arrivare all'arte prende una scorciatoia che taglia fuori
il mestiere. Confortato dal parere di Leonardo, che di mestiere ne aveva da
vendere, dichiara che l'arte è cosa mentale e cerca di darle scacco matto nella
maniera che sappiamo. Roba che uno pensa – Beh questo è andato, vedrai che lo
rinchiudono – e invece no, se ne va a New York che in attesa di diventare la
nuova Roma è la capitale dello egocentrismo e diventa il beniamino della
borghesia ricca e cosmopolita.
È chiaro che sotto l'aspetto demenziale e provocatorio si
nasconde ben altro: una tesi proposta come un dilemma e basata sull'assunto che
il nominare produca l'essere rendendo così obsoleto il fare. ll dilemma è se
debba essere l'arte a decidere
chi siamo o noi a decidere cosa sia l'arte. Ma il nominare non produce
l'essere, il giochetto riesce solo a Yahveh, e suggerendo che è in nostro
potere decidere ci fa una proposta meliflua che solletica il nostro desiderio
di libertà, assume il ruolo del Tentatore lusingandoci con l'offerta di
diventare i re del mondo senza fatica.
Troppo facile per essere vero e nell'arte il fare è il
punto d'incontro tra le possibilità della materia e i desideri della mente e
non è possibile evitarlo ingigantendo la funzione intellettuale, il mestiere
lungi dall'essere limite od ostacolo è un vero toccasana che disciplina la
mente, la salva dai deliri d'onnipotenza e la invera.
Con intelligenza
luciferina Duchamp riassume e conclude in
un algoritmo fulminante l’ontologia ebreo-platonica svelandone la sterilità da
ermafrodito. A questa cercherà rimedio nella copula blasfema e struggente con Rrose Sélavy e dall’unione nascerà
il conturbante Étant donnés. Di quest’opera raggelante si può dire che fosse implicita nel Partenone.
Ma eccoci a Cézanne: secondo Manet – un
muratore che dipinge con la cazzuola – è invece un titano il cui sguardo
abissale, immergendosi nella materia, frantuma l’ideale platonico in una
complessità che sarà indagata dagli artisti che seguiranno. Il suo universo,
come quello della fisica quantistica, è un campo di forza le cui diverse
vibrazioni formano i singoli eventi. Riconoscendo nell’Eros il “pacchetto
d’energia” base della realtà e disciplinandolo, si concentra sulla funzione più
intima dell’arte: sintonizzare l’Eros individuale su quello cosmico. L’aspetto
mimetico della pittura lo interessa poco, ogni pennellata costruisce un piano,
un volume e la modulazione di questa complessità, attraverso il colore,
sprigiona una radianza che fà del quadro una singolarità che genera il proprio
spazio-tempo. Il suo programma è rifare
Poussin sulla natura, a quella natura a cui Watteau guardava con tenerezza
infinita egli vuol dar permanenza, irrorandone le strutture con il colore
saturo di pathos che eredita dall’amato Tintoretto.
L’intreccio così serrato da risultare claustrofobico lo induce, da ultimo,
a cercare con scansioni di tela nuda il respiro necessario, introducendo nella meditazione
pittorica sull’Essere il vuoto come componente rinfrescante. Con una pittura
radioattiva questo “muratore” pone le fondamenta di una nuova ontologia. Tanto
lucida è la sua riflessione che non gli
sfugge certo la perdita del contorno... il contorno! Ovvero quella linea che
definisce l’identità.
È questa la funzione di Duchamp e Joyce: assicurare la
presenza dell’Io, foss’anche in forma stravagante e bislacca, completando
l’ascesa dal Tempo all’Essere con la discesa dell’Essere nel Tempo. E se la
prima dovrebbe liberarci dal timore della morte, la seconda si spera rilanci il
gusto della vita. Artisti complementari, dunque, perchè gli uni senza gli altri
rischiano: Cézanne e Proust il dissolversi nell’iperurano platonico, Joyce e
Duchamp di naufragare sulle scogliere di Circe con l’inevitabile trasformazione
in suini.
Ad essi è riconducibile ogni forma dello sperimentalismo moderno che opera
per gruppi, avanguardie come amano definirsi. Metafisici, futuristi, cubisti, surrealisti,
espressionisti etc. ognuno portatore di una verità, una micropoetica, vivono
intensamente e muoiono giovani, età media dieci anni. La cronaca dell’età
eroica delle avanguardie è nota. Parigi ne è la capitale, l’alternativa tedesca
o russa è presto annichilita dalla nuova pestilenza che devasta l’Europa: l’ideologia.
Essa causa l’ultima di una serie di guerre che ripropone, su larga scala e con
orrori mai visti, quella fratricida fra Sparta ed Atene. Dalla guerra emergono
vincitori comunismo e capitalismo che si contenderanno il mondo fino a che il
crollo di uno porterà alla rovina di entrambi.
Il continente diventa terreno di scontro fra i due colossi, nel blocco
sovietico chi non è felice del paradiso socialista viene fatto accomodare in
Siberia dove a milioni tolgono il disturbo. All’Europa viene così a mancare
l’appassionata anima slava che, tesa tra lirismo e desiderio d’assoluto,
avrebbe bilanciato il pragmatismo della cultura anglosassone. In compenso abbiamo
l’intellettuale organico che si guadagna il pane predicando nei paesi da poco liberati
dal nazi-fascismo che l’immaginazione andrà al potere col marxismo-leninismo. Folle
osannanti al nuovo vangelo invadono le strade di Francia, Italia e Germania (in
Spagna non è aria) mentre l’Inghilterra, che la guerra l’ha vinta davvero, si
dà alla musica.
Ma ora c’è l’America al centro della scena, concreta ed energica vorrebbe
far coincidere vita ed arte. New York è la nuova capitale artistica e Duchamp,
paradosso ad alta tensione intellettuale e fautore dell’egocentrismo assoluto,
è il darling delle avanguardie. Jazz,
beat generation, spiritualità
orientale e cultura europea si fondono in un mix che darà vita ad action painting, espressionismo astratto, pop
art, minimal, conceptual, etc. Da questo epicentro emanano le onde sismiche che
scuotono la società ed al grido di sex,
drugs and rock&roll si compie la prima rivoluzione giovanile.
Alla caduta del comunismo il
capitalismo, che un santo non lo è mai stato, si convince di essere virtuoso e promuove
il proprio principio attivo, il denaro, a qualità morale. È un corto circuito che provoca il black out dell’idee e certifica la morte dell’avanguardia. Esaurito
il proprio ciclo vitale la salma fornisce le reliquie per liturgie intese ad
attirare l’attenzione dei media, indispensabile
per l’accesso al paradiso di Stars e Superstars. La filosofia di Warhol “Fare
soldi è arte, lavorare è arte e un buon affare è l’arte migliore” ispira Koons
“Arte non è farla, arte è venderla” mentre Hirst, troppo preso dal business, affida la decisione sull’arte
alle istituzioni “Il mio lavoro è esposto nei musei quindi è arte”. Così, trascurando
la funzione dell’arte che ossigena l’umano col divino, svanisce anche il sogno
di trasformare la vita in arte.
Ma non disperiamo, in lontananza il brontolio del tuono annuncia l’arrivo
delle pioggie che metteranno fine all’aridità della stagione monosessuale e mentre
l’ermafrodito dionisapollineo svapora, ridimensionato a descrizione di processi
egoici, una figura femminile da tempo negletta si fà avanti, l’Anima! Non l’edulcorata
versione della retorica platonico-cristiana,
ma un qualcosa di complesso e potente che saprà farsi valere. A lei si
rivolgeva Yves Klein nel quale è vivo, come in Cézanne e, seppur narcisisticamente,
in Duchamp lo spirito dei Troubadours. Sgravata dall’obbligo di
rappresentazione e libera da incrostazioni socio-culturali l’arte ci guida attraverso
una notte che è preludio alle nozze con
l’Anima.
Ora il cerchio si chiude, la traversata finisce alla soglia del Mistero in
un Cosmo poetico e sacro. La navicella concettuale che ci ha traghettato non
può spingersi oltre, abbandoniamola. Oltre la soglia ricomincia il canto.
Athos Ongaro
Gennaio 2009